Un progetto di arredamento di interni può essere tutelato secondo la normativa sul diritto d’autore?
La risposta breve alla domanda è sì, sulla base di quanto confermato nella recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 8433 del 30.04.2020, resa tra Wycon S.p.a., già Wjcon S.r.l. (“WYCON”) e Kiko S.p.A. (“KIKO”), con la quale la Suprema Corte ha affermato che un progetto o un’opera di arredamento d’interni è proteggibile, al ricorrere di determinate circostanze, anche quale opera dell’architettura ai sensi dell’art. 2, n. 5 l.a.
Per la risposta lunga, di seguito evidenzieremo i passaggi più significativi della vicenda.
(I) La vicenda e la sentenza del Tribunale di Milano
KIKO è un’azienda operante nel settore della produzione e commercializzazione di prodotti cosmetici e di profumeria, che aveva affidato, nel 2005, allo Studio Iosa Ghini Associati s.r.l. il compito di realizzare una nuova progettazione dei propri negozi e che era titolare, dal luglio 2006, di un relativo modello dal titolo “Design di arredi di interni per negozi monomarca Kiko-Make-Up-Milano”.
Nel 2013, KIKO citava in giudizio, avanti al Tribunale di Milano, la concorrente WYCON, contestandole di aver posto in essere un’attività di sistematica concorrenza sleale sia confusoria che parassitaria, sin dal 2009, in particolare per ciò che attiene all’aspetto dei propri negozi.
Nel corso del giudizio di primo grado, l’attrice chiedeva pertanto al Tribunale, tra le altre, di accertare che il lay-out dei negozi della catena di KIKO, così come i relativi progetti, costituissero opere dell’architettura protette dal diritto d’autore ai sensi dell’art. 2 n. 5 l.a. e che i negozi della convenuta WYCON costituissero violazione dei diritti di autore della KIKO.
Il Collegio riteneva sussistente la tutela di cui all’art. 2, n. 5 L.A. al progetto di arredamento d’interni de quo, precisando, tra le altre, che “Quanto in particolare al settore degli arredamenti d’interni, la sua tutelabilità in base all’art. 2, n. 5 L.A. è unanimemente affermata dalla dottrina e confermata dalla giurisprudenza di merito che finora ha affrontato tale questione (v. tra le più recenti Tribunale Milano, 8.2.2011), laddove – come in generale nelle opere di architettura – la progettazione costituisca un risultato non imposto dal problema tecnico funzionale che l’autore vuole risolvere” (Tribunale di Milano, sentenza n. 11416/2015 pubbl. il 13/10/2015).
I Giudici di prime cure, pertanto, accoglievano parzialmente le domande avanzate da KIKO nei confronti di WYCON e accertavano la tutelabilità del progetto di arredamento d’interni applicato ai negozi di cosmetici della catena di KIKO s.r.l. ai sensi dell’art. 2, n. 5 L.A. nonché la contraffazione di tale progetto posta in essere dalla convenuta WYCON s.r.l., inibendola dall’ulteriore utilizzazione.
Il Tribunale, inoltre, riteneva configurato l’illecito di cui all’art. 2598 n. 3 c.c. da parte di WYCON in relazione alla condotta parassitaria da essa mantenuta nell’associare, all’imitazione del progetto di arredamento d’interni, la ripresa pedissequa di ulteriori iniziative commerciali e di comunicazione poste in essere da KIKO, tra cui l’abbigliamento delle commesse, l’aspetto dei sacchetti e dei contenitori porta prodotti, l’aspetto dei prodotti stessi, la comunicazione commerciale on line, e condannava WYCON al risarcimento del danno in favore di parte attrice nella misura di complessivi Euro 716.250,00, oltre interessi, fissando a titolo di penale la somma di Euro 10.000,00 per ogni negozio che avesse mantenuto detti arredamenti oltre il sessantesimo giorno dalla data di notifica in forma esecutiva della sentenza.
(II) L’impugnazione in appello da parte di WYCON
Detta pronuncia veniva impugnata con atto di citazione in appello del 09.11.2015 da WYCON, che lamentava, quale secondo motivo, l’erroneità della sentenza, nella parte centrale del ragionamento logico-giuridico del Tribunale, in cui si evidenziava la meritevolezza della tutela autorale ai sensi dell’art. 2 n. 5 l.a., come progetto di architettura di interni, del progetto di arredamento de quo.
WYCON sosteneva in particolare che il ragionamento dei primi Giudici fosse errato in quanto non si sarebbe trattato di opera di architettura di interni, ma eventualmente di interior design, tutelato ai sensi del successivo art. 2 n. 10 l.a., che richiederebbe che l’opera abbia un valore artistico. L’appellante, inoltre, con il quarto motivo di doglianza, lamentava che i Giudici di primo grado avevano erroneamente ed ingiustamente ritenuto che la stessa avesse posto in essere una fattispecie di concorrenza parassitaria ai danni di KIKO ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c.
Orbene, il secondo motivo di doglianza non veniva condiviso dalla Corte d’Appello, la quale statuiva che “il concetto di “interior design” si addice maggiormente, per quel che risulta dall’esperienza e dalla giurisprudenza (anche da quella citata dalla Kiko) a singoli elementi che compongono l’arredamento di un interno, quali ad esempio, una lampada o una poltrona etc. Il concetto di architettura di interni si addice al complesso dell’arredamento di un interno, ad esempio, di un negozio, che si situa nello aspetto totale di questo interno, quando anche sia composto da singoli beni anche mobili.” (Corte d’Appello, sentenza n. 1543/2018 pubbl. il 26/03/2018)
Anche la doglianza circa l’erroneità della pronuncia sulla concorrenza parassitaria non veniva condivisa dalla Corte. Secondo il giudice di secondo grado “(…) pur non sussistendo i presupposti per ritenere la imitazione confusoria prodotto per prodotto, tanto che i primi Giudici hanno escluso la sussistenza della fattispecie di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 1 c.c., la imitazione degli elementi come sopra considerati da parte di Wycon è talmente sistematica anche agli occhi di un osservatore superficiale della cospicua documentazione e delle fotografie prodotte dalle parti, da rendere assolutamente di giustizia l’affermazione al di là di ogni ragionevole dubbio che Wycon ha sfruttato le ricerche, l’attività produttiva e promozionale ed il lavoro di Kiko. Del resto anche qui vale la considerazione che lo agganciamento parassitario riguarda il complesso dell’attività commerciale dell’appellata e che, quindi, essa non è esclusa da singole e parziali differenze degli elementi considerati, i quali peraltro sono molto di frequente anche essi uguali o comunque pedissequamente imitati” (Corte d’Appello, sentenza n. 1543/2018 pubbl. il 26/03/2018).
La Corte d’Appello, pertanto, così si pronunciava:
“in parziale accoglimento dell’appello principale ed in parziale riforma dell’impugnata Sentenza n. 11416/205 del Tribunale di Milano, pubblicata il 13.10.2015, dispone che il tempo entro il quale la Wycon s.p.a. dovrà rimuovere gli arredamenti di interni dei negozi copiati dal concept store, per cui è causa, secondo quanto chiarito meglio in motivazione, sia di giorni 150 in luogo dei giorni 60 assegnati dal Tribunale con la medesima decorrenza; respinge nel resto l’appello principale; respinge l’appello incidentale;
conferma nel resto l’impugnata sentenza.”
(III) Il ricorso avanti alla Corte di Cassazione
WYCON proponeva quindi ricorso avanti la Corte di Cassazione, lamentando, quale quarto motivo di doglianza, violazione dell’art. 2 n. 5 l.a., “sia quanto alla qualificazione giuridica della fattispecie come opera dell’architettura, pur in mancanza di un progetto d’arredo concreto e definito in tutti i suoi connotati espressivi formali, sia, in relazione all’art.2 n. 10 L.A., quanto alla qualificazione giuridica della fattispecie come opera dell’architettura anziché come opera di design e conseguente mancata valutazione della stessa ai fini della verifica della sussistenza, per l’accesso alla tutela, del requisito del valore artistico” (Corte di Cassazione, n. 8433 del 30.04.2020).
Inoltre, la ricorrente, lamentava altresì la violazione e/o falsa applicazione, dell’art.2598 c.c., in relazione alla ritenuta concorrenza parassitaria, in mancanza dell’accertamento circa l’esistenza degli elementi costitutivi della suddetta tutela.
Infine, con gli ultimi due motivi di doglianza, WYCON contestava i criteri di liquidazione del danno fatti propri dalla Corte d’appello.
a) Il principio di diritto della Suprema Corte: un’opera di arredamento di interni che esprima una chiara chiave stilistica di componenti coordinate e organizzate, è proteggibile quale opera dell’architettura, ai sensi dell’art.5 n. 2 l.a.
Con riguardo alle censure di cui al quarto motivo, la Suprema Corte statuiva che “Ora, come stimato dalla Corte di merito, un progetto o un’opera di arredamento di interni, nel quale vi sia una progettazione unitaria, in uno schema in sé visivamente apprezzabile, che riveli una chiara «chiave stilistica», di singole componenti organizzate e coordinate per rendere l’ambiente funzionale ed armonico, ovvero l’impronta personale dell’autore, è proteggibile come progetto di opera dell’architettura, ai sensi dell’art.5 n. 2 I.a. («i disegni e le opere dell’architettura»), a prescindere dal requisito dell’inscindibile incorporazione degli elementi di arredo con l’immobile, non presente nella suddetta disposizione, o dal fatto che gli elementi singoli di arredo che lo costituiscano siano o meno semplici ovvero comuni e già utilizzati nel settore, purché si tratti di un risultato di combinazione originale, non imposto da un problema tecnico-funzionale che l’autore vuole risolvere.”
I Giudici continuano inoltre statuendo che “Il progetto di architettura di interni non è infatti tutelabile, come ritenuto dalla ricorrente, esclusivamente, come modello di design industriale, ai sensi dell’art.2 n. 10 l.a., nei singoli elementi di cui il piano di arredamento si compone (e che possono essere utilizzati separatamente l’uno dall’altro, in quanto non conformati in modo tale da potere essere solo combinati l’uno con l’altro), proteggibili alla condizione che sia effettivamente presente un «valore artistico»”
E ancora “Invero, l’opera dell’ingegno è protetta dall’ordinamento purché presenti un qualche elemento od una qualche combinazione che sia originale, frutto della creatività, ancorché minima del suo autore (Cass. 908/1995), così da potersi identificare, pur inserendosi in un genere assai diffuso, per essere un prodotto singolare dell’autore e da poter essere individuata tra le altre analoghe (Cass. 7077/1990).”
“Per essere tutelabile, il progetto o l’opera di architettura d’interni deve essere, tuttavia, sempre identificabile e riconoscibile sul piano dell’espressione formale come opera unitaria d’autore, per effetto di precise scelte di composizione d’insieme degli elementi (ad es. il colore delle pareti, particolari effetti nell’illuminazione, la ripetizione costante di elementi decorativi, l’impiego di determinati materiali, le dimensioni e le proporzioni). Infatti, l’esclusiva riguarda il complesso, l’opera unitaria di organizzazione dello spazio, l’utilizzo congiunto degli elementi di arredo secondo il medesimo disegno organizzativo.”
I Giudici fanno altresì riferimenti alle pronunce della Corte di Giustizia: “La Corte ha evidenziato che un’opera autorale è tale ove ricorra un «oggetto originale», per il quale, da un lato, è necessario e sufficiente che esso rifletta la personalità del suo autore, manifestando le scelte libere e creative di quest’ultimo (v., in tal senso, sentenza del 10 dicembre 2011, Painer, C-145/10, EU:C:2011:798, punti 88, 89 e 94, nonché del 7 agosto 2018, Renckhoff, C-161/17, EU:C:2018:634, punto 14), e che la sua realizzazione non sia stata frutto di considerazioni di carattere tecnico, di regole o altri vincoli che non lasciano margine per la libertà creativa, e, dall’altro lato, che vi sia un oggetto – opera – identificabile con sufficiente precisione e oggettività (v., in tal senso, sentenza del 13 novembre 2018, Levola Hengelo, C-310/17, EU:C:2018:899, punto 40).”
La Suprema Corte ha pertanto affermato il seguente principio di diritto:
“In tema di diritto d’autore, un progetto o un’opera di arredamento di interni, nel quale ricorra una progettazione unitaria, con l’adozione di uno schema in sé definito e visivamente apprezzabile, che riveli una chiara “chiave stilistica”, di componenti organizzate e coordinate per rendere l’ambiente funzionale ed armonico, ovvero l’impronta personale dell’autore, è proteggibile quale opera dell’architettura, ai sensi dell’art.5 n. 2 La. («i disegni e le opere dell’architettura»), non rilevando il requisito dell’inscindibile incorporazione degli elementi di arredo con l’immobile o il fatto che gli elementi singoli di arredo che lo costituiscano siano o meno semplici ovvero comuni e già utilizzati nel settore dell’arredamento di interni, purché si tratti di un risultato di combinazione originale, non imposto dalla volontà di dare soluzione ad un problema tecnico-funzionale da parte dell’autore”.
La Suprema Corte riteneva dunque infondato il quarto motivo di doglianza.
b) La concorrenza sleale parassitaria, ricompresa fra le ipotesi previste dall’art. 2598, n. 3, c.c. deve valutarsi sulla base di una considerazione cumulativa delle condotte
Con riferimento alle doglianze relative alla concorrenza parassitaria, la Suprema Corte ribadiva che “la concorrenza sleale parassitaria, ricompresa fra le ipotesi previste dall’art. 2598, n. 3, c.c., consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell’imprenditore concorrente attraverso l’imitazione non tanto dei prodotti ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest’ultimo, mediante comportamenti idonei a danneggiare l’altrui azienda con ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale; essa si riferisce a mezzi diversi e distinti da quelli relativi ai casi tipici di cui ai precedenti nn. 1 e 2 della medesima disposizione, sicché, ove si sia correttamente escluso nell’elemento Corte di Cassazione – copia non ufficiale dell’imitazione servile dei prodotti altrui il centro dell’attività imitativa (requisito pertinente alla sola fattispecie di concorrenza sleale prevista dal n. 1 dello stesso art. 2598 c.c.), debbono essere indicate le attività del concorrente sistematicamente e durevolmente plagiate, con l’adozione e lo sfruttamento, più o meno integrale ed immediato, di ogni sua iniziativa, studio o ricerca, contrari alle regole della correttezza professionale» (Cass. 25607/2018; Cass. 22118/2015).”
Con riguardo alla fattispecie, la Corte ha ritenuto che dovesse essere effettuata una valutazione puntuale delle diverse iniziative commerciali, proprio per la tipologia di illecito concorrenziale ed in relazione alle precise contestazioni mosse da WYCON. Ha infatti precisato come non fosse sufficiente il ricorso a generiche formule di stile, come quella utilizzata dalla Corte d’Appello di Milano. Quest’ultima aveva invero ritenuto sussistente l’illecito concorrenziale, precisando tuttavia che “non è intenzione di questo Collegio addentrarsi nella disamina analitica di ciascuno degli elementi, che precedono, così attentamente esaminato dalle parti negli atti difensivi finali”.
La Corte riteneva pertanto fondati i motivi ottavo, nono e decimo motivo del ricorso principale, concernenti il capo relativo alla conferma dell’illecito per concorrenza parassitaria ex art. 2598 n. 3 c.c.
c) In tema di liquidazione equitativa del danno, il Giudice deve indicare i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al quantum
La Corte d’appello, nella sentenza impugnata, condivideva la valutazione espressa dal Tribunale, che aveva stimato il danno subito da KIKO in Euro 700.000,00. Tale somma era determinata dalla moltiplicazione per dieci dell’intero compenso corrisposto dalla KIKO, al progettista Studio Iosa Ghini.
Dapprima la Suprema Corte precisava che “È consolidato il principio espresso da questo giudice di legittimità per cui, in tema di diritto d’autore, la violazione di un diritto d’esclusiva che spetta all’autore ai sensi dell’art. 12 della I. n. 633 del 1941 costituisce danno “in re ipsa”, analogamente a quella di un diritto assoluto o di un diritto personale, senza che incomba al danneggiato altra prova che non quella della sua estensione (Cass 12954/2016; Cass. 8730/2011; Cass. 14060/2015; Cass. 3672/2001).”
In tema di liquidazione equitativa del danno, al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, è necessario che il giudice indichi, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al “quantum” (Cass. 2327/2018).”
Dipoi, la Suprema Corte, riteneva sussistente un vizio nella liquidazione del danno effettuato dai giudici di merito, poiché veniva utilizzata “come base di calcolo non la somma che l’utilizzatrice WYCON avrebbe dovuto pagare a Kiko per acquistare i diritti correlati allo sfruttamento del concept store, ma la somma che, in unica soluzione, Kiko aveva liquidato, quale committente, all’autore del progetto di architettura, e come moltiplicatore un’unità (dieci), del tutto arbitraria.” (Corte di Cassazione, n. 8433 del 30.04.2020)
d) Le determinazioni della Corte di Cassazione
La Corte accoglieva pertanto i motivi ottavo, nono, decimo e undicesimo del ricorso principale di WYCON, assorbito il dodicesimo, e respingeva i restanti nonché il ricorso incidentale. Cassava dunque la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinviava la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, anche in ordine alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.