Tribunale Penale di Napoli

SENTENZA

n. 6767/2020 pubbl. il 10/11/2020

(Giudice relatore: dott. Luca Purcaro)

Nella causa a carico di

Ca.Ci., nato (…), ivi residente alla Vico (…)

(domicilio dichiarato ex art. 161 c.p.p., come da verbale di interrogatorio reso il 30.10.2020 in sede di udienza di convalida),

difeso di fiducia dagli Avv.ti Lu.De. (nominato nel verbale di arresto redatto il 29.10.2020 dalla Questura di Napoli – U.P.G.) e An.Ru. (nominato all’udienza del 30.10.2020).

Arrestato, presente

(Si omettono le conclusioni delle parti)

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE

A. Il giorno 29 ottobre 2020, alle ore 10.00, Ca.Ci. era tratto in arresto in Napoli da appartenenti alla Questura di Napoli – U.P.G. in relazione al reato di contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi ovvero di brevetti, modelli e disegni, come in epigrafe indicato.

All’udienza del 30.10.2020, su disposizione del P.M. di turno della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli e sulla base dei capi d’imputazione da questi formulati, Ca.Ci. è stato presentato a questo Giudice Monocratico della V Sezione Penale del Tribunale, che, dopo aver raccolto la relazione orale dell’ ufficiale di P.G. Assistente Gi.Or. e sentito l’arrestato in merito ai fatti, ha convalidato l’arresto, disponendo procedersi al contestuale giudizio direttissimo. L’imputato, quindi, ha chiesto in limine litis di essere giudicato con le forme del giudizio abbreviato, prestando il consenso alla celebrazione del processo anche per il reato di ricettazione, non oggetto della convalida dell’arresto. Il giudice, acquisito il fascicolo del P.M., ha disposto il giudizio abbreviato. Le parti, quindi, hanno proceduto alla discussione, concludendo nei termini prima riportati.

B. Ritiene questo giudicante che sia rimasta accertata al di là di ogni ragionevole dubbio la penale responsabilità dell’ attuale imputato in ordine ai reati a lui contestati.

La prova si basa sulle risultanze della c.n.r. redatta dalla Questura di Napoli – U.P.G. il 29.10.2020 con gli atti a essa allegati (tra cui i verbali di arresto, perquisizione e sequestro redatti dal medesimo Ufficio in pari data, i rilievi fotografici dello stato dei luoghi), nonché sulle dichiarazioni rese dall’ ufficiale operante e dall’imputato nel corso dell’interrogatorio.

Dai predetti elementi probatori è rimasto accertato, in punto di fatto, quanto segue.

La mattina del 29 ottobre 2020, verso le ore 9.45, appartenenti alla Questura di Napoli – U.P.G. stavano transitando nella zona denominata “(…)” e, precisamente, alla G.Ca. del capoluogo partenopeo, quando notarono che dal palazzo ubicato al civico n. 5 uscivano in più occasioni persone che portavano bustone da cui fuoriuscivano capi di abbigliamento. Gli operanti, che erano in divisa, non riuscirono a fermare i soggetti notati, i quali, alla loro vista, si allontanavano rapidamente nei vicoli della zona. I poliziotti, però, decisero di accedere all’interno dello stabile n. 5, dove, nell’ androne sul lato sinistro trovarono un locale magazzino con la porta aperta, al cui interno vi era un soggetto seduto su uno sgabello dietro una scrivania, in seguito identificato nell’odierno imputato Ca.Ci.. Nel locale in esame erano esposti su scaffalature e grucce diversi capi di abbigliamento riproducenti noti marchi di moda, con relative etichette identificative. In particolare, furono trovati n. 165 capi di abbigliamento costituiti da pantaloni, giubbotti, felpe, maglioni e scarpe riproducenti i marchi “(…)”. Vi erano, inoltre, tra gli scaffali anche numerosi cartellini, alcune zippo – cerniere riproducenti noti marchi, dei manichini e un grande specchio, debitamente fotografati. Gli operanti, infine, chiesero al prevenuto di esibire la documentazione fiscale relativa all’acquisito della merce detenuta, ma lo stesso non fu in grado di farlo e, pertanto, fu tratto in arresto, mentre la merce rinvenuta fu sequestrata unitamente al locale. Ca.Ci., nell’ interrogatorio reso in sede di udienza di convalida, ha ammesso di gestore lui il locale, spiegando che acquistava lui i marchi da alcuni cinesi siti alla Via (…), per poi applicarli sui capi di abbigliamento.

C. 1. Gli elementi probatori raccolti fanno, quindi, ritenere che l’ attuale imputato fosse titolare e gestiva un locale destinato alla lavorazione di capi di abbigliamento recanti marchi contraffatti, poi destinati alla successiva vendita all’ ingrosso. La presenza di capi di abbigliamento già finiti recanti il marchio di notissime ditte nazionali ed estere, di numerosi cartellini e zippo-cerniere riportanti i nomi di note marchi di moda, nonché le stesse dichiarazioni dell’imputato (che ha dichiarato di comprare da soggetti di origine cinese i marchi per poi applicarli sulla merce), depongono univocamente in tale senso.

Secondo la prevalente giurisprudenza in materia di falso e, in particolare, di contraffazione di prodotti industriali e opere dell’ingegno, ai fini dell’accertamento dell’elemento oggettivo del reato non è indispensabile l’indagine peritale, ben potendo la falsità essere desunta aliunde, sulla scorta del generale principio del libero convincimento del giudice. La contraffazione dei marchi, nel caso in esame, è emersa in maniera inconfutabile dagli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero e dalle dichiarazioni dello stesso imputato. Si deve rilevare, inoltre, che la contraffazione risulta anche dal rinvenimento di diverse etichette riproducenti noti marchi, le quale non erano ancora state apposte sui capi d’abbigliamento, e dall’assenza di ogni documentazione fiscale comprovante il regolare acquisto della merce.

2. Tale comportamento integra, in primo luogo, gli elementi costitutivi del delitto di cui all’art. 473 c.p., contestato come primo reato.

L’imputato, infatti, ha fatto uso di marchi contraffatti nazionali ed esteri di prodotti industriali, senza essere concorso nella contraffazione degli stessi, per come dallo stesso ammesso in sede di interrogatorio, quando ha dichiarato di essere lui ad applicare i marchi in precedenza acquistati da cittadini cinesi sui capi di abbigliamento. Il prevenuto, poi, ben poteva conoscere l’esistenza del titolo di proprietà industriale, alla luce della notorietà anche internazionale dei marchi, delle modalità di acquisto degli stessi e dei suoi precedenti penali, da cui si evince che è dedito in maniera sistematica al commercio di prodotti con segni falsi. In proposito si deve rilevare che, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, “nella ipotesi di cui all’art. 473 c.p. non è necessario, per la ricorrenza del reato, che il marchio contraffatto raggiunga il consumatore individuale in quanto la condotta sanzionata consiste nella contraffazione o alterazione, ovvero nell’uso del marchio o del segno distintivo contraffatto alterato da altri, e detto uso non necessariamente si identifica con la cessione al consumatore potendosi realizzare in una fase anteriore alla collocazione sul mercato del prodotto recante il marchio contraffatto” (cfr. Cassazione penale, sez. V, 5 novembre 2001, Foro ambrosiano 2002, 168 (s.m.). Tale principio è stato ribadito anche in epoca recente per evidenziare la differenza tra la fattispecie di cui all’art. 473 c.p. e quella di cui all’art. 474 c.p., poiché si è affermato che “l’uso di marchi e segni distintivi punito dall’art. 473 c.p., essendo inteso a determinare un collegamento tra il marchio contraffatto e un certo prodotto, precede l’ immissione in circolazione dell’ oggetto falsamente contrassegnato e se ne distingue, mentre l’uso punito, più severamente, dall’art. 474 c.p. è direttamente connesso all’ immissione in circolazione del prodotto falsamente contrassegnato e presuppone che sia stato già apposto il contrassegno su una determinata merce” (così Cassazione penale, sez. V, 05/04/2019, n. 26398). Ad avviso di questo giudice, poi, non si può ritenere l’ insussistenza del reato in esame sulla base delle caratteristiche degli oggetti detenuti, le quali evidenziano in maniera riconoscibile a tutti che trattatasi di prodotti contraffatti, il cui marchio è palesemente non originale.

Tale tesi, infatti, non è condivisa dalla prevalente giurisprudenza di legittimità e di merito, sulla base delle seguenti considerazioni.

Va rilevato, in primo luogo, che i delitti di cui agli artt. 473 e 474 c.p. tutelano il marchio e non il prodotto, per questo non possono trovare ingresso considerazioni che escludono la punibilità facendo riferimento al prodotto che non costituisce l’elemento materiale né l’oggetto della tutela penale della fattispecie incriminatrice.

Il reato in esame, poi, rappresenta un tipico reato di mera condotta e di pericolo, la cui lesione si realizza con la semplice “immutatio veri” che si verifica con l’illecita riproduzione del marchio, senza che abbiano rilievo il danno o l’inganno perpetrato nei confronti dei terzi. Se il legislatore avesse voluto tutelare anche il compratore, lo avrebbe esplicitamente detto, come del resto già previsto dall’art. 517 c.p.

A nulla vale, infine, richiamare la giurisprudenza sul falso innocuo o grossolano, poiché tale figura per operare presuppone che la condotta posta in essere integri la fattispecie tipica anche se non realizza l’evento o non arreca offesa al bene protetto.

Nei reati previsti dagli artt. 473 e 474 c.p., però, non fanno parte della fattispecie tipica le caratteristiche qualitative o il prezzo del prodotto, per cui se tali elementi sono estranei alla fattispecie normativa non possono essere presi in considerazione per valutare l’eventuale offensività o meno della condotta. L’interpretazione seguita da questo giudice, del resto, è conforme alla prevalente giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che “l’interesse giuridico tutelato dalla norma dell’art. 473 c.p. (in piena coincidenza con quello dell’art. 474 c.p.) è la “pubblica fede” in senso oggettivo, intesa come affidamento dei cittadini nei marchi o segni distintivi che individuano le opere dell’ ingegno o i prodotti industriali e ne garantiscono la circolazione, e non l’affidamento del singolo, sicché non è necessario per integrare il reato che sia realizzata una situazione tale da indurre il cliente in errore sulla genuinità del prodotto. Al contrario, il reato può sussistere – se la contraffazione sia oggettivamente realizzata – anche se il compratore è stato messo a conoscenza dallo stesso venditore della non autenticità del marchio” (così Cassazione penale, sez. V, 5 novembre 2001).

Si ritiene integrata, inoltre, anche la circostanza aggravante prevista dall’art. 474 ter, comma 1, c.p., poiché la condotta contestata è stata svolta dal CA. attraverso l’ allestimento di mezzi e attività organizzate, per come si evince dalla predisposizione di un apposito locale destinato all’apposizione dei marchi contraffatti, prima, e alla successiva vendita all’ingrosso della merce finita, dopo, ben esposta in appositi scaffali e grucce con la divisione per taglie.

3. Risulta, altresì, configurabile a carico dell’imputato l’ autonomo reato di ricettazione contestato per secondo, in mancanza d’ elementi probatori che ne dimostrino il concorso nell’ attività d’illecita contraffazione o alterazione sanzionata dall’art. 473 c.p. – circostanza che, anzi, le modalità dell’azione e il ridotto numero di prodotti industriali detenuti porterebbe a escludere, sulla base della comune esperienza circa l’attività di contraffazione, che generalmente si svolge in forma organizzata su vasta scala con distribuzione ad acquirenti all’ingrosso piuttosto che con l’immediata vendita al dettaglio – e di qualsiasi altra possibile ricostruzione dei fatti offerta dall’imputato in ordine alle modalità con cui è entrata in possesso dei beni rinvenuti.

Sussiste, infatti, l’elemento materiale del reato costituito dal possesso delle opere contraffate finalizzato al loro sfruttamento economico. La detenzione d’oggetti di provenienza illecita presuppone, nel suo aspetto dinamico, una condotta acquisitiva degli stessi, la quale si sostanzia nell’ipotesi dello “acquisto”, o quanto meno della “ricezione”, intesa nell’accezione comunemente ritenuta in dottrina e giurisprudenza quale espressione di chiusura comprensiva di tutti quei comportamenti, diversi dall’acquisto, ai quali consegue il possesso della res. Incontestabile è anche la natura di cose provenienti da reato delle etichette recanti marchi non originali, condotta che configura altra autonoma ipotesi delittuosa prevista dalla legge all’art. 473 c.p. (nella forma della contraffazione o alterazione) e costituisce il fatto criminoso presupposto, che può essere di qualsiasi natura e non necessariamente contro il patrimonio.

Sul piano soggettivo, poi, la prova del dolo (generico e specifico) richiesto dalla norma incriminatrice si trae dal numero e dalle caratteristiche esteriori delle etichette come prima evidenziati, elementi idonei secondo la comune esperienza a ingenerare in qualsiasi persona di media levatura intellettuale e culturale una chiara consapevolezza del carattere illecito delle cose ricevute, nonché a dimostrare la volontà del possessore di utilizzarli a scopo di lucro attraverso la successiva commercializzazione al minuto.

Circa la possibilità, in punto di diritto, di un concorso materiale tra il reato di ricettazione e quello di uso di segni distintivi di prodotti industriali contraffatti previsto dall’art. 473 c.p., si è correttamente osservato in giurisprudenza che trattasi di figure criminose ontologicamente distinte, concernenti condotte cronologicamente e strutturalmente differenti (nella ricettazione viene incriminato, a monte, l’acquisto e la ricezione, mentre nell’art. 473 c.p. vengono sanzionate una serie di condotte successive che partono, anticipando così la soglia di punibilità, dalla detenzione per la vendita per poi comprendere le più varie forme d’effettiva utilizzazione economica del prodotto). Non sussiste, pertanto, un rapporto di specialità tra le due condotte atteso che le norme incriminatrici che le prevedono non regolano la “stessa materia”, ma tutelano beni giuridici diversi, costituiti, nella ricettazione, dall’interesse a impedire la circolazione nel mercato di cose provenienti da delitto e, nell’uso di prodotti con segni falsi, dalla tutela dei titolari dei marchi e segni distintivi nazionali o esteri a percepire i proventi derivanti dall’utilizzazione economica delle opere recanti gli stessi. Tale interpretazione trova il conforto della giurisprudenza di legittimità, la quale ha sostenuto in una recente sentenza a Sezioni Unite che “il delitto di ricettazione è configurabile anche nell’ipotesi di acquisto o ricezione, al fine di profitto, di cose con segni contraffatti nella consapevolezza dell’avvenuta contraffazione, atteso che la cosa nella quale il falso segno è impresso – e che con questo viene a costituire un’unica entità – è provento della condotta delittuosa di falsificazione prevista e punita dall’art. 473 c.p.” (così Cassazione penale, sez. un., 9 maggio 2001, n. 23427, Nd.Pa.). Si tratta di violazioni di legge unificate dall’esistenza di un unitario disegno criminoso, quello di trarre utilità economica dalla cessione onerosa a terzi dei prodotti contraffatti di cui l’imputato ha acquisito la disponibilità materiale.

D. Quanto alla determinazione della pena, questo giudice ritiene, in primo luogo, concedibili a Ca.Ci. le circostanze attenuanti generiche per l’ottimo comportamento processuale tenuto dallo stesso, che non si è limitato all’ammissione di quanto emergeva dagli atti, ma anche alla confessione di circostanze che solo il prevenuto poteva riferire. Le circostanze di cui all’art. 62 bis c.p., però, possono essere valutate solamente equivalenti alla contestata recidiva, alla luce della valutazione complessiva della condotta e dell’esistenza di plurimi precedenti penali, quasi tutti per reati specifici, a dimostrazione dello svolgimento in maniera professionale e continuata dell’attività illecita.

E’ possibile riconoscere, inoltre, l’esistenza di un medesimo disegno criminoso tra i reati contestati, di cui più grave è la ricettazione, con il conseguente aumento di pena determinato ai sensi dell’art. 81, comma 4, c.p., poiché a Ca.Ci. è già stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99, comma 4, c.p.. I plurimi precedenti specifici riportati dal prevenuto e la condotta complessivamente tenuta nel presente procedimento (che denota quanto meno un collegamento con gli ambienti criminali che si dedicano su vasta scala alla contraffazione e al commercio di prodotti con segni falsi), non consentono, infine, di riconoscere nel caso in esame la sussistenza della circostanza attenuante di cui all’art. 648, cpv., c.p.. La costante giurisprudenza di legittimità ha, infatti, sostenuto che “in tema di ricettazione, il valore del bene è un elemento concorrente solo in via sussidiaria ai fini della valutazione dell’attenuante speciale della particolare tenuità del fatto, nel senso che, se esso non è particolarmente lieve, deve sempre escludersi la tenuità del fatto, risultando superflua ogni ulteriore indagine; soltanto se è accertata la lieve consistenza economica del bene ricettato, può procedersi alla verifica della sussistenza degli ulteriori elementi, desumibili dall’art. 133 cp., che consentono di configurare l’attenuante “de qua”, e che va, al contrario, esclusa quando emergano elementi negativi, sia sotto il profilo strettamente obbiettivo (ad es., l’entità del profitto), sia sotto il profilo soggettivo (ad es., capacità a delinquere dell’agente). (Cass. Sez. 2, 9.7.2010 n. 28689: nella specie, la Corte ha escluso la sussistenza dell’attenuante con riguardo alla ricettazione di due autoradio di ottima marca, una delle quali munita anche di telecomando), principio ribadito anche di recente da Cass. Sez. 1, 13.3.2012 n. 13600 secondo cui l’attenuante della particolare tenuità del fatto nel reato di ricettazione va sempre esclusa se il fatto non è particolarmente lieve, risultando superflua ogni ulteriore indagine; mentre, se è accertata la lieve consistenza economica del bene ricettato, ai fini del riconoscimento della circostanza può procedersi alla verifica della sussistenza degli ulteriori elementi, desumibili dall’art. 133 c.p.” (così Cassazione penale, sez. II, 06/12/2013, n. 51818, B.).

Tenuto conto, poi, di tutti i criteri valutativi di riferimento dettati dall’art. 133 c.p., questo giudice stima equa e adeguata al caso concreto la pena di anno uno, mesi nove, giorni dieci di reclusione ed Euro seicento (600,00) di multa (pena così determinata: p.b. per il più grave reato di ricettazione, anni due di reclusione ed Euro seicentosessanta (660,00) di multa, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva; aumentata di almeno un terzo alla pena di anni due, mesi otto di reclusione ed Euro novecento (900,00) di multa per la continuazione con l’altro reato contestato; ridotta di un terzo alla pena di cui sopra per la scelta del rito).

Segue per legge la condanna dell’imputato al pagamento delle spese processuali, nonché la pubblicazione della sentenza, per estratto e per una sola volta, sul quotidiano “(…)” ai sensi di quanto previsto dall’art. 475 c.p..

Non sussistono i presupposti giuridici per concedere a Ca.Ci. la sospensione condizionale della pena, della quale ha già beneficiato una volta, riportando in seguito altre condanne per delitto.

Ai sensi dell’art. 474 bis c.p. va, infine, disposta la confisca obbligatoria e la successiva distruzione dei capi di abbigliamento, delle etichette contraffate e dell’altra merce in sequestro, costituente l’oggetto del reato, nonché la sola confisca del locale in sequestro, il quale era interamente destinato alla commissione dell’attività illecita. A tale ultimo proposito si deve evidenziare che, se non è stato ancora accertato che il locale apparteneva all’imputato, la norma prima citata ne prevede la confisca anche qualora appartenga a persona estranea al reato, la quale dovrà dimostrare per evitare la confisca “di non averne potuto prevedere l’illecito impiego, anche occasionale, o l’illecita provenienza e di non essere incorsa in un difetto di vigilanza”, Circostanza che non sono state neanche dedotte nel presente procedimento.

P.Q.M.

Il G.M., letti gli artt. 442, 533 e 535 c.p.p., dichiara Ca.Ci. colpevole dei reati a lui ascritti in rubrica e, unificati gli stessi ai sensi dell’art. 81, cpv., c.p., riconosciute all’imputato le circostanze attenuanti generiche equivalenti alla contestata recidiva e con la diminuente per il rito prescelto, lo condanna alla pena di anno uno, mesi nove, giorni dieci di reclusione ed Euro seicento (600,00) di multa, oltre al pagamento delle spese processuali.

Dispone la pubblicazione della sentenza, per estratto e per una sola volta, sul quotidiano “(…)”.

Ordina la confisca e distruzione dei capi di abbigliamento e degli altri oggetti in sequestro, mentre ordina la sola confisca dell’immobile.

In difetto di richiesta di misura cautelare da parte del P.M., si dispone la scarcerazione dell’imputato se non detenuto per altra causa.

Così deciso in Napoli il 30 ottobre 2020

Depositata in cancelleria il 10 novembre 2020